La Suprema Corte ha affrontato il tema inerente la qualificazione dello stato di insolvenza (ordinanza n. 15572)
A seguito della pronuncia di fallimento di una società da parte del Tribunale di Salerno su ricorso di un istituto di credito, la società fallita aveva impugnato relativa sentenza innanzi alla Corte d’appello di Salerno.
Quest’ultima aveva però rigettato il reclamo proposto, osservando come lo stato d’insolvenza della società fosse desumibile sia dal mancato pagamento del debito vantato dall’istituto di credito, sia dalla condotta della ricorrente la quale aveva dismesso il suo patrimonio vanificando le azioni esecutive dei creditori.
Il ricorso della società in esame
La società debitrice aveva quindi proposto ricorso avanti alla Corte di Cassazione denunciando la violazione e la falsa applicazione degli articoli 5 e 7 L.F. nonché degli articoli 2727 e 2729 cod. civ., in ordine all’insussistenza dello stato d’insolvenza.
Nello specifico, si contestava la circostanza per cui l’inadempimento di una sola obbligazione nei confronti della banca non potesse costituire elemento univoco di giudizio per valutare il presunto stato di insolvenza.
Risoluzione e motivazioni della Suprema Corte
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato.
Secondo il disposto normativo di cui all’articolo 5 L.F. per cui “lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”, la Cassazione ha evidenziato come, nel caso di specie, lo stato d’insolvenza emergesse dalla palese condotta della società debitrice (mancato pagamento del credito e dismissione del patrimonio della stessa debitrice).
Si è voluto quindi dare continuità ad un consolidato orientamento della Corte secondo cui lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale “si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività” (cfr. Cassazione Civ., n. 29913/2018 e n. 26217/2005).
Secondo i giudici di legittimità, l’inadempimento anche di una sola obbligazione può quindi essere sufficiente ai fini della dichiarazione di fallimento, quando si palesi che “non sia più possibile per l’impresa continuare ad operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni” (cit. Cassazione Civ., n. 29913/2018).
In conclusione
In ogni caso, pur se il marcato sbilanciamento tra l’attivo e il passivo patrimoniale non sia in grado di fornire, di per sé, la prova dell’insolvenza – potendo comunque essere superato dalla prospettiva di un favorevole andamento futuro degli affari, o da eventuali ricapitalizzazioni dell’impresa – allo stesso modo deve essere puntualmente valutato poiché “l’eventuale eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, nella maggior parte dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che, a norma dell’articolo 5 L.F., si mostrano rivelatori dell’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni” (cit. Cassazione Civ. n. 26217/2005).